Alluvioni e pessima politica del territorio che affliggono l’Italia da decenni


Una prima domanda che si pone è da quanto tempo l’Italia (e non solo) è soggetta alle  grandi alluvioni? La storia dell’Italia, geologicamente parlando, è legata alla formazione delle Alpi, degli Appennini, del grande golfo padano che si estendeva fino ed oltre Torino ed il cui riempimento si è protratto per milioni di anni. Altre pianure esistono in Italia e soprattutto zone pianeggianti che a SW e NE  bordano gli Appennini.

L’origine della fossa padana, che per riempimenti successivi avrebbe dato luogo alla pianura omonima, risale a circa 11-12 milioni di anni fa quando il Mare Adriatico si estendeva ad W delimitato a Nord dalle Alpi, al Sud dagli Appennini. Il riempimento di questo grande bacino ebbe una forte accelera-zione a seguito della chiusura dello Stretto di Gibilterra 5.5 milioni di anni fa (Miocene Superiore) quando il livello marino del Mediterraneo si abbassò drasticamente dando luogo alla formazione di profondi canyon e rendendo, a causa dei forti dislivelli che interessarono i fiumi alpini, l’attività erosiva delle acque fluviali molto intensa e quindi accrescendo enormemente il trasporto di sedimenti a valle.

Nel lungo periodo di accumulo, l’estensione del bacino marino si ridusse progressivamente fino alla saturazione ed alla emersione della pianura come la conosciamo oggi con il grande delta del Po.  Dal IV secolo d.c. gli insedia-menti umani apportarono nella zona oggi conosciuta come Polesine (parola che potrebbe derivare dal greco polus che significa molte e nesos che significa isole), basati su variazioni del drenaggio superficiale per facilitare il deflusso delle acque verso il Mare Adriatico. Da allora ad oggi la Pianura Padana è stata intensamente urbanizzata e modificata dalle attività umane ed è anche per questo soggetta ad inondazioni di varia intensità.

La capacità degli affluenti  di esondare nel corso di avvicinamento al  Po  e di invadere le zone pianeggianti crebbe nell’ultimo milione di anni a seguito dei 10 cicli glaciali del Tardo Quaternario. In pratica nel corso delle fasi glaciali freddissime, della durata di 80-95 mila anni, le nevi perenni si spinsero verso valle alimentando i grandi ghiacciai alpini, che si caricarono di quantità enormi di sedimenti (conosciuti con il nome di morene). A questi lunghi periodi di freddo intenso si alternarono fasi interglaciali calde di 5-15 mila anni, che si susseguirono ciclicamente nell’ultimo milione di anni. I brevi periodi di caldo (interglaciali) disciolsero in parte gli strati nevosi che si erano accumulati nel tempo, riversando a valle immensi quantitativi di acque e sedimenti.

Più in generale  gran parte delle catene montuose del pianeta delimitano bacini imbriferi al cui interno si concentrano le acque nei periodi di sciogli-mento glaciale e di elevata piovosità. Il Bacino indo-gangetico ed il bacino del Rio delle Amazzoni sono tra i bacini più grandi del pianeta. Il fatto che i popoli abbiano prediletto (per esempio è il caso del territorio tra il Tigri e l’Eufrate) l’ubicazione dei loro villaggi o città in prossimità di fiumi e mari è una scelta di sopravvivenza, di maggior potenziale irriguo delle zone pianeggianti, di disponibilità di risorse e quindi di condizioni di vita migliori.

L’occupazione, per scopi legati all’agricoltura, delle pianure dell’Indo e del Gange, della pianura Padana e di zone costiere e pianeggianti in Italia rientra appunto in questo ordine evolutivo cui tutti i popoli si sono adeguati, con alterne vicende. Nel caso del Nilo le inondazioni periodiche hanno consentito una efficiente agricoltura, nel caso dei popoli del Bangladesh la quantità di acqua, che viene riversata a valle dai fiumi che hanno origine dall’Himalaya, spesso eccede la norma e quindi esondazioni immense ed incontrollabili possono verificarsi.

Quello che accade nei nostri tempi in fatto di inondazioni è  allo stesso tempo sorprendente ed assurdo. Le previsioni meteorologiche anticipano di giorni o di ore la possibilità di eventi  incontrollabili e la conoscenza del territorio, del-l’idraulica e quindi della diffusione delle piene nelle zone pianeggianti agricole, dovrebbero consentire di identificare le aree a rischio, i rimedi  temporanei (canali e zone di drenaggio) e le modalità dei soccorsi che si possono quindi attivare prima che le situazioni divengano incontrollabili. La realtà è che quali che siano gli sforzi organizzativi ad esempio della Protezione Civile, non si riesce in molti casi ad effettuare un controllo adeguato nei periodi di intense precipitazioni. Questa inconsistenza  degli interventi, tuttavia è conseguenza della continua cementificazione del territorio, che in Italia procede con una rapidità che non ha eguali in Europa. La confusione è inoltre aggravata dal sovrapporsi dalla mancanza di fondi per fronteggiare l’emergenza. Il Capo della Protezione Civile Franco Gabrielli ha dichiarato a seguito delle alluvioni di dicembre 2013 di aver utilizzato tutti i fondi disponibili, affermazione che integra quanto aveva detto a seguito della devastante alluvione dell’Ottobre 2011 lamentando una carente prevenzione nei territori troppo antropizzati.

Il solo discorso che a questo punto mi sembra degno di nota è il fatto che le grandi conoscenze del territorio accumulate negli ultimi 40 anni (ed in precedenza) e quanto era già stato comunicato al Parlamento negli anni ’70 – Relazione De Marchi a seguito dei disastri del Polesine e di Firenze – sia rimasto quasi lettera morta: la politica resta in questo paese il solo motore di sviluppo, quando le cose vanno bene a livello europeo e mondiale. Quando invece dovrebbe essere guidata da uomini dotati di conoscenze scientifiche, gli esperti vengono messi alla porta e si parla d’altro, magari di leggi ad personam di rifinanziamenti come quello dell’Alitalia etc. In sostanza il nostro Paese è privo della  capacità nel razionalizzare i problemi, di trovare soluzioni e di metterle in opera come avviene in altre Nazioni  Europee.

La dissennata occupazione di aree di espansione dei fiumi è stata inoltre accompagnata da opere concepite e realizzate in parte da speculatori che non avevano e non potevano avere alcun interesse nel creare condizioni di pacifica coesistenza tra uomo e  fenomeni naturali.

Racconto a questa punto una mia piccola storia.  Verso la metà degli anni ’70 la società presso cui lavoravo (la SAUTI) mi  inviò per 6 mesi in missione in Indonesia e precisamente nell’isola di Sumatra per la progettazione della strada Sidjungjung-Muarabungo-Lubuklinggau in piena foresta pluviale. Il gruppo dei topografi era già lì da tempo e quindi era organizzato per ospitare me e l’altro collega geologo (Vito) con il quale ci saremmo occupati dei sondaggi e degli studi geofisici per la progettazione delle fondazioni dei ponti. Il nostro volo in aereo a Sumatra fu breve e piacevole, fummo accolti da un autista con cartello all’aereoporto e portati all’interno direttamente nella zona dei lavori, ospiti del campo di tende dei nostri amici topografi.

All’arrivo mi sembrò di osservare un campo tende per turisti, ben organizzato ed ordinato. Il campo, sulla sponda del fiume Sungaidareh era costituito da tende ben spaziate, collegate da coppie di tavole di legno che disegnavano tutti i percorsi possibili tra le tende, che erano piccole quelle per dormire, medie quelle per lavorare ed una grande per la mensa. Verso le 15, dato che era iniziata una fitta pioggia, chiesi un ombrello e domandai dove fosse il bagno. Mi e mi fu indicato un casotto di legno, coperto, a sbalzo sul fiume, confortevole e molto panoramico. No ricordo perché (forse una deformazione professionale), dalla lunghezza dei pali di legno immersi verticalmente nel fiume che sorreggevano il casotto, calcolai che tra il livello dell’acqua  ed il terrazzo su cui era stato costruito il campo c’erano circa 5 m, un valore ritenni in quel momento più che rassicurante. Poi ci mettemmo con il mio collega a lavorare e verso le 16.30 tornai di nuovo in bagno e mi sembrò che il livello dell’acqua fosse salito di 1.5 m, ma non detti eccessiva importanza al problema, impegnandomi però ad una verifica da eseguire intorno alle 17.30. Fu così che scoprii che in circa un’ora  l’acqua era salita 1.5 m dal piano del campo e detti l’allarme. La prima reazione fu di incredulità, poi accompagnai i responsabili del campo che per la verità erano allibiti e in quel frangente vidi una canoa con  a bordo un locale sfrecciava nella direzione della corrente a grande velocità verso valle. Chiesi ad un nostro autista interprete di chiedere un parere al navigatore solitario e quello spartanamente disse “muovetevi da qui, entro mezzora il fiume raggiungerà il suo terrazzo fluviale ed arriveranno i caimani”. Fu questa seconda notizia che si diffuse alla velocità della luce: immediatamente venne dato l’ordine di evacuazione, io ed il mio amico non avevamo nemmeno disfatto i bagagli e quindi fummo i primi a prendere l’iniziativa. Tutto fu smontato in fretta  e fortunatamente gli operai indonesiani che erano con noi dettero un contributo insostituibile. Quasi tutto fu portato sulle 20 Land Rover di cui disponevamo, qualcosa fu ammucchiato su un piccolo rialzo del terreno e dopo un po’ vedemmo l’acqua che ormai lambiva il terrazzo già cosparso di pozzanghere. Io ed il mio collega geologo fummo subito etichettati come iettatori, ma sapevamo che era uno scherzo e che questa commedia sarebbe continuata per tutto la durata della campagna di indagini. Nei mesi successivi ad ogni nostra visita al campo dei topografi si rinnovava il rituale di farci sentire ospiti indesiderati che portano iella. Ma questo non turbò assolutamente i nostri camerateschi rapporti.

Detto questo è evidente in generale che il convogliarsi dell’acqua degli affluenti nel fiume principale, nel caso di una precipitazione che si protrae per ore, inizia lentamente e poi cresce nel tempo fino a quando la pioggia cessa e magari nel giro di qualche ora torna il sereno.

Passando da questi ricordi alla situazione italiana è quasi banale osservare che al procedere della urbanizzazione delle zone pianeggianti ed agricole,  cresce il deflusso delle acque che non sono più libere di espandersi nelle zone tradizionali di occupazione dei fiumi nei periodi di pioggia e di essere assorbite dal suolo.  Vivendo nei Paesi del Sud Est asiatico il fenomeno delle case su palafitte è una costante ambientale degli insediamenti umani e non bisogna aver studiato idraulica per capire che i fiumi hanno un loro regime che periodicamente prevede condizioni di piena e di magra e quindi una diffusione delle acque  o un loro ritiro dalle zone limitrofe.

Oggi è facile incontrare nei nostri percorsi quotidiani strade importanti che si allagano dopo brevi temporali, semplicemente perché la manutenzione dei i drenaggi costa troppo o perché non sono stati affatto previsti drenaggi.

Questo porta anche alla conclusione che al crescere della popolazione in un territorio limitato l’impatto umano si ingigantisce  e questa tendenza  dalle contrastanti conseguenze nuoce all’equilibrio del territorio ed alza i livelli di vulnerabilità della popolazione. Altri fenomeni tra i quali la corruzione ampliano il ventaglio degli impatti antropici, con le estreme conseguenze che si possono immaginare ad esempio da una improvvisa eruzione del Vesuvio, ma non poco danno deriva dal basso livello scientifico di tanti operatori e responsabili magari selezionati per raccomandazione. In generale il problema del territorio è fuori della portata dei nostri politici che non vogliono sentirne parlare. A questo basso livello di comunicazione si adeguano anche molti canali televisivi: non è raro che si presenti un personaggio importante, che parli ma non si senta perché la voce è quella dei presentatori che sono ormai i proprietari dei canali di comunicazione e non i giornalisti che dovrebbero far da tramite tra le Autorità del Paese e la popolazione.  C’è in sostanza un deficit di comunicazione che copre i problemi reali con una cortina di chiacchiere: tutto deve essere comico quanto possibile, la gente deve poter sorridere e star bene, non importa se a pochi km di distanza c’è gente che muore per mancanza di soccorsi o per decisioni di pianificazione i cui responsabili andrebbero perseguiti per legge. Da questo modo di crescere del Paese i nostri fogli e nipoti erediteranno povertà e disastri in misura crescente.

Le recenti alluvioni del modenese del 20-23, quella del 30-31 Gennaio 2014 e quelle precedenti della Liguria e della Sardegna  sono ascrivibili allo stato di degrado del territorio che non è considerato una risorsa naturale, come è nella realtà, ma un teatro di guerra di speculatori che si annidano ormai nel-l’industria privata e nelle amministrazioni pubbliche.

Paradossalmente, infine il tanto conclamato desiderio di “semplificazione delle regole” per uno sviluppo rapido dell’economia, viene esteso a tutte le strutture statali, cercando di includere in questo ipotetico processo anche la burocrazia in generale in quanto freno al progresso economico. In realtà ciò che bisognerebbe fare è la semplificazione delle responsabilità attribuendo ad esempio la tutela del territorio alle sole Regioni ed evitando il sovrapporsi di Istituzioni che tutelano esclusivamente le proprie autonomie lasciando il territorio in balia di opposti estremismi politici e di speculatori sempre in attesa del nuovo disastro (è il caso di ricordare i due personaggi che a seguito del’ Terremoto dell’Aquila si scambiarono per telefono espressioni di soddisfazione per gli affari che avrebbero potuto concludere).

Nel corso di oltre sei decenni – come chiaramente si evince dall’articolo del Dr. Marco Delle Rose “Politica e catastrofi idrogeologiche dal Polesine alla commissione De Marchi” – le conoscenze scientifiche ed i mezzi di indagine sono evidentemente aumentati,  i progetti effettuati praticamente in tutta Italia hanno comportato la spesa di centinaia di miliardi di Euro (considerando i tas-si di conversione dalla Lira), senza peraltro mettere in sicurezza il territorio.

Del resto il tasso di consumo del terreno agricolo per nuove costruzioni è il più alto d’Europa, mentre vecchie costruzioni che potrebbero essere restaurate vengono abbandonate nella speranza degli speculatori e spesso delle autorità comunali che il progressivo degrado le renda inutilizzabili.

La conclusione che ho tratto dopo decenni di lavoro da geologo è che i disastri naturali sono inevitabili e che solo una democrazia forte, ben organizzata ed efficiente può mettere in campo tutte le forze disponibili, individuare un coordinamento di altissimo livello professionale e minimizzare per quanto possibile il rischio.